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L'UOVO DEL SERPENTE
(DAS SCHLANGENEI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 gennaio 1978
 
di Ingmar Bergman, con Liv Ullmann, David Carradine, Gert Froebe, Heinz Bennent (Svezia - Germania, 1977)
 
Sull'ultimo film di Bergman, il primo da lui girato fuori dalla Svezia nella sua lunga e quanto mai gloriosa carriera, ne avrete ormai sentite diverse. Quella più amena è successa ancora una volta in Italia: dove il distributore, De Laurentiis, indignato per una critica giudicata non sufficientemente elogiativa apparsa su un celebre quotidiano, ha tolto il film dalla circolazione. Per poi tirarlo fuori in una prossima occasione, non con la dicitura "dissequestrato definitivamente" alla quale siamo abituati, ma forse con quella di una rivisitazione critica, che oltre tutto è un termine che va di moda. L'importante è che se ne parli. Per dirla succintamente, L'UOVO DEL SERPENTE non è un grandissimo Bergman. Non è, tanto per intenderci,IL POSTO DELLE FRAGOLE, SUSSURRI E GRIDA e, nemmeno SCENE DI UN MATRIMONIO.

Trasportato negli studi di Monaco, con una distribuzione internazionale, forse con delle preoccupazioni di fare un film di ampia fruizione, un'opera di ampia lettura, Bergman ha fatto un film nel quale l'aneddoto, la "storia" (e quindi i suoi risvolti, i suoi cliché, i suoi riferimenti ad altre opere, ad altri generi, un certo conformismo) assume un'importanza eccessiva.

Il film è girato nella Berlino del 1923. L'anno del primo putsch fallito da Hitler a Monaco, l'anno in cui un dollaro valeva milioni di marchi e dove, al ristorante, cambiavano sulla lavagna il prezzo della bistecca mentre stavate mangiandola. È un film sulla paura, quella che invade tutti i cittadini, ed in particolar modo la coppia protagonista: una paura che vi entra nelle cellule, fatta di presentimenti inconsci e poi via via che il tempo passa, anche di minacce materiali. Specie per uno di nome Rosenberg, come il trapezista protagonista. La paura de L'UOVO DEL SERPENTE è immensamente debitrice all'eterna matrice kafkiana, e vien da chiedersi cosa si sarebbe fatto in questi casi se l'autore del "Processo" non fosse mai esistito. È anche debitrice di tutta una iconografia sull'espressionismo tedesco, estremamente affascinante, ma della quale cominciamo ad essere un po' meno golosi: le face dipinte di tragico, degli artisti di cabaret, l'allegria forzata nell'imminenza della catastrofe, le epidermidi livide della gente di notte contro il rosso allucinante degli addobbi. Bergman la ricrea con una perfezione evidentemente inappuntabile, aiutato dal suo grande direttore della fotografia, Sven Nikvist: ma sono cose che, seppur con altri intenti, le avevamo già viste fare dal Visconti dei DANNATI o dal Bob Fosse di CABARET.

È debitrice, la paura del film, di tutta un'aneddotica cara ai film polizieschi, thrilling e via dicendo: c'è una sovrabbondanza di cadaveri, di emoglobina, di effetti di suspense come quelli dell'ascensore che vi viene addosso o del cattivo che sta nel suo laboratorio alla James Bond, e che alla fine inghiotte la pillola di cianuro. Tutte cose, confessiamolo, alle quali pensavamo che l'asceta scandinavo non avrebbe mai ricorso. Però mi sembra anche ridicolo liquidare L'UOVO DEL SERPENTE con due formulette: pur coi suoi limiti, il film rimane una meditazione a tratti di gran genio su come l'uomo, orfano di un Dio al quale affidarsi (ed è uno dei non molti legami del film con il resto dell'opera bergmaniana) possa tradurre la propria angoscia esistenziale in un dramma, ed in una degenerazione, collettiva. Specie se vi è condotto, come nel caso tedesco, da una volontà esterna consapevole

L'arte di Ingmar Bergman, in questo suo film minore, rifulge mirabilmente per due requisiti registici: la direzione d'attori e l'uso dello sfondo a scopo espressivo. Se con Carradine, Bergman non sembra legare particolarmente, il film rappresenta il suo ennesimo incontro con Liv Ullmann e gli permette di darci ancora una volta uno stupendo ritratto femminile, una di quelle donne apparentemente fragili ma dall'intuizione al limite della chiaroveggenza, per le quali il regista svedese resterà sicuramente celebre. Parlando di uso dell'ambiente non intendo lodare la perfezione culturale, notevole, dell'ambientazione. Ma di come Bergman usa gli spazi e i colori del proprio film per trasmetterci i sentimenti, gli umori, la psicologia d'egli individui rappresentati. Man mano che il film prosegue assistiamo ad una specie di fagocitosi dei personaggi da parte dell'ambiente. Il sole scompare, le tinte si fanno brune, livide. I protagonisti iniziano una loro discesa agli inferni, che è al tempo stesso morale e fisica. C'è una splendida sequenza in questo senso, degna di rimanere nelle antologie, per come si possa materializzare in cinema quello che sta "dentro" ai personaggi. Rosenberg sta davanti al commissario di polizia; ma soltanto per ragguagli, per vaghi sospetti, nulla di particolarmente inquietante. Ma Rosenberg di inquietudine è ormai pregno; per quello che sente, o intuisce, succedere attorno a lui ogni giorno. E scappa, senza ragione, dall'amichevole commissario. Nel dedalo di corridoi, di stanze, poi di sbarre, poi di celle della polizia berlinese, egli sì rinchiude da solo, in una propria prigione, in un proprio destino. I muri gli si fanno addosso, le sbarre se le ritrova in faccia, per una accettazione propria, forse involontaria, di un destino collettivo. Che, noi sappiamo, condurrà a Hitler e a Buchenwald. In questo senso il film è grande: e o partire da quel momento noi vedremo Carradine e la Ullmann seppelliti progressivamente in un labirinto d'infamia, in una spirale inarrestabile che li condurrà a vivere come topi, ad avvicinarsi sempre di più al fondo dell'abisso, alle cantine più profonde dove la luce artificiale non viene mai spenta, e tragici dottor Mabuse guidano i fili di un'umanità disperata.

Perché il trapezista Carradine, che è americano e che ha intuito da tempo dove stanno andando le cose, non se ne parte per altri lidi meno infausti? È proprio in questa accettazione tragica, da parte del protagonista, in questa scelta di scendere, uno alla volta, i gradini verso l'inferno, che il film di Bergman riesce ad intuire e a tradurre mirabilmente la lezione storica e umana in un aneddoto altrimenti scontato.


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